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Ciò che siamo è certamente frutto di una stratificazione storica complessa e plurimillenaria, ma la nostra visione del mondo si costruisce soprattutto grazie al forte impatto sociale che hanno avuto importanti avvenimenti del nostro più recente passato. Questo avviene generalmente in tutte le epoche, ma nella nostra forse il peso dell’eredità degli avvenimenti appena trascorsi si fa sentire con maggior preponderanza. I motivi di questo possono essere molteplici e tra questi gioca un ruolo fondamentale sicuramente l’incremento sostanziale della velocità dei cambiamenti tecnologici e di pensiero, figli della società del progresso che hanno remote origini con la rivoluzione industriale, e che vedono una straordinaria accelerazione a partire dagli ultimissimi anni del XIX secolo. Ma a determinare una brusca frattura con la storia è stata soprattutto l’eredità rovinosa della Seconda Guerra Mondiale che Settant’anni fa ha costretto la coscienza umana a prendere le distanze da responsabilità storiche e ideologiche figlie di una visione del mondo fino a quel momento mai radicalmente messa in discussione e che ha portato alla catastrofe. Ma facciamo un passo indietro...

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Sul finire dell’Ottocento, il fervore intellettuale e artistico fiorente in alcune grandi capitali europee stava per mettere in crisi il concetto di opera d’arte tradizionale, rimasta sostanzialmente immutata per secoli, e tramandata, attraverso il romanticismo, fino alle soglie del XX secolo, e della cui definizione fino a quel momento non ci si preoccupava. A sgretolarla furono, nel primo Novecento, le avanguardie storiche che interessarono in primis il mondo dell’arte figurativa, ma che ben presto coinvolsero, con le dovute differenze, anche l’ambito musicale. La Parigi degli impressionisti e dei simbolisti, in cui operavano compositori come Claude Debussy, Maurice Ravel e lo stravagante Erik Satie, fu in quel periodo un vero punto d’attrazione di artisti provenienti da tutta Europa, e patria d’adozione di musicisti destinati a lasciare un segno indelebile nel panorama della musica europea, come il russo Igor Stravinskij che proprio a Parigi nel 1913 presentava con scandalo il balletto “Le Sacre du Printemps”. Parallelamente, a Vienna, capitale di un enorme impero in decadenza, la Secessione artistica di Gustav Klimt e Otto Wagner coesisteva con il gigantismo tardoromantico delle ultime sinfonie mahleriane e con le prime avanguardie musicali della Seconda Scuola di Vienna di Arnold Schöneberg e degli allievi Alban Berg ed Anton Webern.

L’espressionismo dominò l’arte figurativa e la musica in area austro-tedesca almeno fino al primo dopoguerra e alla Repubblica di Weimar, mentre in Italia il tentativo di recupero di una tradizione strumentale autoctona da parte di Ottorino Respighi, Ildebrando Pizzetti, Gian Francesco Malipiero e Alfredo Casella, offuscata da secoli di egemonia del melodramma, cercò di emergere in un panorama musicale in cui dominavano gli ultimi successi dei più celebri operisti, dei quali Giacomo Puccini ne fu sicuramente il più illustre rappresentante. Un caso del tutto a sé fu invece quello del pianista e compositore italo-tedesco Ferruccio Busoni, vera figura di confine a cavallo tra la tradizione romantica e lo spirito visionario capace di immaginare, ante litteram, i possibili mezzi estetici del domani musicale, nello stesso periodo in cui il futurismo provava a condurre nell’arte le artificiose novità di una società sempre più veloce e meccanizzata, dove cioè l’elemento rumoristico, introdotto in musica per primo da Luigi Russolo, sarebbe stato da lì in avanti parte integrante della vita quotidiana. Particolare fu all’inizio del XX secolo anche la situazione musicale americana in cui coesistevano numerose tendenze apparentemente contrapposte. La cultura tardoromantica proveniente dal vecchio continente ed il flusso di nuove personalità dall’Europa come quella di Edgar Varése coesistevano con quelle di figure autoctone come Charles Ives, e poi Henry Cowell ed Aaron Copland che cominciavano ad operare negli stessi anni in cui cresceva rapida la popolarità del Jazz anche in ambito colto grazie ai successi di George Gershwin.

Il periodo di pace tra le due guerre fu un momento di grande fervore artistico. Mai come in quel momento coesistevano tendenze e correnti dalle più disparate origini e convinzioni, come il neoclassicismo e l’ecclettismo di nascenti gruppi di giovani antiaccademici come in “Les Six” al quale appartenevano Arthur Honegger e Darius Milhaud. Ad influenzare trasversalmente il panorama musicale europeo del dopoguerra furono anche la novità del Jazz e delle inedite forme di ballo provenienti dagli Stati Uniti che impazzavano nei locali delle più importanti capitali europee, contaminando sul nascere quello che fu lo spettacolo più caratteristico del momento: il Cabaret. Il confine tra musica alta e musica d'uso andava sempre più sfumandosi nell’attività dei giovani compositori del dopoguerra sia in Francia, ma anche in Austria e Germania dove personalità come Ernst Křenek e Paul Hindemith operavano, rimanendo assai attive almeno fino all’ascesa del nazionalsocialismo. La Seconda Guerra Mondiale inflisse poi un durissimo colpo all’arte in Europa. Moltissimi intellettuali emigrarono in Svizzera, in Inghilterra o negli Stati Uniti, come nel caso di Bela Bartók. Alcuni rimasero e riuscirono in parte ad operare, come Goffredo Petrassi e Luigi Dallapiccola in Italia, Dmitrij Šostakovič in Unione Sovietica ed Olivier Messiaen in Francia, che però nel ’40 dovette subire la prigionia tedesca. Diversa fu invece la situazione in Gran Bretagna, storicamente sempre affetta da un certo isolazionismo culturale, dove l’unica grande figura musicale di quel periodo fu probabilmente quella di Benjamin Britten.

Nell’immediato dopoguerra, la spartizione dell’Europa in sfere di influenza generò da lì a poco la divisione del mondo in due grandi blocchi contrapposti. Mentre nei paesi dell’area filosovietica come la Polonia operavano musicisti del calibro di Witold Lutosławski e Krzysztof Penderecki, la Francia e la Germania in ricostruzione divennero i luoghi in cui una nuova generazione di compositori diede vita ad una rinnovata stagione di ricerca musicale, svincolata da quell’appartenenza ideologica e nazionalista che portò l’umanità alla catastrofe della Seconda Guerra Mondiale. Il centro di attrazione delle nuove avanguardie del dopoguerra fu soprattutto la cittadina tedesca di Darmstadt, nella quale annualmente venivano organizzati corsi estivi dedicati alla nuova musica, corsi frequentati nei primi anni ’50 da giovani studenti che ruotavano principalmente attorno alla figura di Messiaen, come Pierre Boulez e Karlheinz Stockhausen, ma anche da Luigi Nono, Bruno Maderna, Luciano Berio, Mauricio Kagel e Iannis Xenakis. Il principio che legava la musica delle nuove avanguardie fu inizialmente quello del serialismo di concezione post-weberniana, che sfociò poi in un rigore strutturalista al quale però solo pochi autori rimasero a lungo coerenti. Negli Stati Uniti, dove le convinzioni seriali e strutturaliste non attecchirono mai in maniera radicale, trovarono tuttavia in George Crumb un iniziale ammiratore, e in Morton Feldman un conoscitore, anche se quest’ultimo volse presto il suo interesse compositivo verso una personale interpretazione dell’aleatorietà ispirata soprattutto a quello che fu l’espressionismo astratto nell’arte figurativa americana di quegli anni.

Nel frattempo, le ricerche nell’ambito della musica concreta ed elettronica avviata già alla fine degli anni ’40 da Pierre Schaeffer, coinvolsero nel dopoguerra tantissimi compositori, chi per una pura curiosità sperimentale, chi invece in maniera più sistematica e duratura. Inoltre, circa a metà degli anni ’50 alcune interessantissime figure "periferiche" emersero dal panorama delle avanguardie del secondo dopoguerra, tra queste spiccò soprattutto quella dell’ungherese György Ligeti, che, a differenza dell’amico György Kurtág (giunto alla notorietà solo molti anni più tardi), riuscì a fuggire dall'oppressione del regime del suo paese per trovar fortuna in occidente. Nello stesso periodo, la spinta globalizzante della cultura occidentale permise la commistione tra culture apparentemente molto lontane tra loro. Il caso più eclatante fu quello del Giappone che, da paese isolazionista, fu testimone dal secondo dopoguerra di un’impressionante quanto repentino processo di occidentalizzazione che interessò non solo la cultura tecnico-scientifica, ma anche quella artistica e musicale con figure cardine come Tōru Takemitsu.

La conseguente crisi dello strutturalismo nelle avanguardie occidentali condusse la sperimentazione compositiva verso i più remoti confini della costruzione formale. I risultati di questa crisi sfociarono in diverse direzioni: da un lato venne introdotta l’idea di un’aleatorietà controllata, come in alcune composizioni di Henri Pousseur e molti altri già citati autori, dall’altra, soprattutto ad opera dell’americano John Cage, si mise in discussione l’idea stessa di processo compositivo, proprio negli stessi anni in cui esplodeva la cultura di massa e il rock conquistava le giovani generazioni e la musica di ricerca diveniva materia per un gruppo sempre più limitato di specialisti, creando una divisione apparentemente insormontabile tra i due mondi di produzione musicale. Tuttavia, sul finire degli anni ‘60, alcuni gruppi provenienti dal contesto del rock, soprattutto Britannico, iniziarono a sperimentare commistioni tra musica leggera, Jazz, con riferimenti alla musica colta, aiutati anche dalle possibilità tecniche dei nuovi strumenti elettrici e delle nuove possibilità offerte dal mondo della registrazione sonora. Da queste sperimentazioni nacque così un innovativo e raffinato e prorompente filone del rock che vide come protagonisti gruppi inglesi come Genesis, King Crimson e Pink Floyd, Gentle Giant ed Emerson, Lake & Palmer. Anche l’Italia, nei primi anni ’70, conobbe l’interesse per il rock progressivo con celebri gruppi come Le Orme, Premiata Forneria Marconi, Banco del Mutuo Soccorso e soprattutto gli Area il cui cantante, Demetrio Stratos, fu probabilmente l’unico nell'ambito del rock a svolgere, parallelamente ad alcuni musicisti in ambito colto, una assidua ricerca personale delle possibilità date dalla voce umana, aspetto che lo avvicinò più di chiunque altro allo spirito della musica di ricerca. Questi furono comunque per l’Italia anni molto vivaci sia in fatto di produzione, sia per la divulgazione musicale. Parallelamente alla diffusione di musica di consumo di eterogenea qualità, trovava infatti respiro un’assai vasta costellazione di importanti autori d’avanguardia come Giacomo Manzoni, Aldo Clementi, Franco Evangelisti, Sylvano Bussotti, Niccolò Castiglioni, e soprattutto Franco Donatoni che, per via della sua longeva attività didattica, fu sicuramente il musicista che più di tutti riuscì ad influenzare e formare nuove generazioni di compositori.

Tra gli anni ’70 e gli anni ‘80, mentre gli storici autori d’avanguardia del secondo dopoguerra proseguirono in strade sempre più personali e divergenti, sia nel campo della musica acustica, sia in quella della musica elettronica con l’interesse per la “spazializzazione sonora”, nuovi fenomeni emergevano dall’operato delle giovani generazioni di compositori che ambivano, seppur con differenti soluzioni, al ritorno ad una musica chiara, ordinata e maggiormente intellegibile. Uno di questi fenomeni fu di certo la corrente del “minimalismo” statunitense di La Monte Young, Terry Riley e Steve Reich, in concomitanza con fenomeni europei assai variegati, come quello del collage e poi del minimalismo sacro di Arvo Pärt, quello della cosiddetta “Neue Einfacheit” di Wolfgang Rihm, mentre in Italia, in chiave di una rinnovata volontà di comunicabilità con il grande pubblico, prese piede un bizzarro e anacronistico recupero del linguaggio diatonico-tonale che sfociò in particolar modo in una cospicua produzione destinata al teatro. Un'originale tipologia di minimalismo musicale può essere definito anche il linguaggio di Salvatore Sciarrino, il quale tende a spinge i singoli elementi sonori, spesso derivanti da tecniche strumentali all’epoca inconsuete e innovative, agli estremi della percezione uditiva. In una posizione essenzialmente opposta operavano invece Brian Ferneyhough e il tedesco Helmut Lachenmann, autori della così detta “nuova complessità”. Un'altra corrente con protagonisti Hugues Dufourt, Gérard Grisey, Tristan Murail, denominata “spettralismo”, in Francia si contrappose alla serialità matematica di Boulez in vista di una musica basata sull’osservazione e l’utilizzo del suono dal punto di vista fisico-spettrale attraverso l’analisi computerizzata; a tal fenomeno si avvicinarono anche l’italiano Fausto Romitelli, ed in una qualche misura l’austriaco Georg Friedrich Haas.

Negli anni ’90 la capillare diffusione dell’informatica permise alla sperimentazione elettroacustica ed elettronica di uscire dai grandi centri di ricerca. Tale situazione favorì in grande misura il filone dello spettralismo, mentre soprattutto negli Stati Uniti, continuava l’interesse per il concetto del minimalismo in musica, interesse che sfonda le soglie del XXI secolo con una costellazione variegata di autori.

Terminati gli anni della pura ricerca sonora, che fu materia per le più radicali avanguardie tra gli anni ’50 agli anni ’70, e che continuò in tempi recenti solo in alcuni ambiti non ancora così esplorati come quello del "microtonalismo", al quale si rifanno oggi soprattutto alcuni compositori come Enno Poppe,  con il nuovo millennio le tendenze di autori di eterogenea cultura, come Olga Neuwirth e Louis Andriessen le cui opere sono caratterizzate da continue citazioni, collage e contaminazioni, danno linfa ad un filone che si potrebbe definire post-modernista in cui la contrapposizione tra generi e tecniche di tutte le astrazioni si fa sempre più fluida, e dove si fa strada, come nell'arte figurativa, una concezione più ampia della creazione musicale che in molti casi sfocia in vere e proprie installazioni sonore o multimediali.

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